Intorno alle
quindici la cucina si riempiva di gente.
La zia ancora
doveva finire di rigovernare.
Sotto la finestra
vi era una pentola piena dell’acqua con cui erano stati lavati i piatti in
attesa della crusca che ben rimescolata, sarebbe diventata un ben pastone per quel povero
maiale che aspettava nella stalla.
Le padelle erano
appese dentro la cappa in cui scoppiettava un bel fuoco che ogni tanto veniva
ravvivato con sterpi e pezzetti di pali di vigna tagliati a metà.
Sulla sinistra,
appoggiato con il braccio ad una seggiola, stava, appisolato, il vecchio zio
Biagio.
Il nonno era sceso
nel bottaio a sistemare fiaschi e bottiglie.
Il babbo era andato
a lavorare.
La mamma sistemava
la stanza da pranzo.
I ragazzi, non
potendo uscire per il cattivo tempo si riscaldavano alla scoppiettante fiamma-
Toc toc si sentì.
Che ora è? disse zio Biagio, aprendo un occhio.
Sono le tre,
risposi. Vai ad aprire: questa è zia Carmina! Era lei.
Dopo un po’ un
altro toc toc. Vai, questa è mia sorella Santa.
Ancora un altro toc
toc e venne zia Assunta, poi zia Domenica e poi Comare Adelina, poi comare
Antonia e infine comare Filomena.
Queste matrone
occuparono tutti i posti. Venne pure la Mamma e zia Lucia che si mise a ravvivare la
fiamma.
Fuori intanto
nevicava. Si vedevano lampi e s’udivano tuoni cupi e profondi.
Il tramontano
fischiava attraverso le fessure delle finestre.
Il nonno era
ritornato portando una bottiglia di
buon rosso.
Zia Lucia andò a
prendere i bicchieri.
Narrate una favola! disse una voce
di bimbo.
Così, tra un sorso e l’altro,
cominciarono i racconti.
Ascoltate, disse
zia Antonia.
C’era una volta un giovane che si era innamorato della
figlia del Re. Per poterla sposare gli disse il Sovrano, devi portarmi, entro
tre giorni, due uova e una penna dell’uccello grifone. Poi, vai agli inferi e
portami pure…Il giovane partì…
Il racconto era
ricco di poesia e la favola veniva trattata, anche se con povero linguaggio, in
modo poliedrico, al limite del reale e dell'irreale.
C’era l’uccello
grifone, il castello, una giumenta furiosa, un cerbero dagli occhi di fuoco,
forze magiche e soprannaturali, montagne che sparivano e uscivano poi dalle
nuvole, guardiani, nidi irraggiungibili, spiriti, demoni e maghi che
intrecciavano le loro azioni tra soffi di vento e di pioggia e lampeggiar di
fulmini.
E c’era soprattutto
l’eroe che riusciva sempre a vincere il gioco, che era, se vogliamo, quello
dell’esistenza umana proiettata in un ambiente di sogno, astratto e atemporale.
Zia Antonia
parlava, parlava. Sudava.
Il viso fatto
vieppiù rubizzo dalla fiamma che scoppiettava proprio davanti, e l’ampio
vestito di panno che avvolgeva la sua corpulenta figura.
La nostra
attenzione era al massimo e alla fine sopraggiungeva anche la commozione quando
la narratrice, dopo aver partecipato, come diceva, al matrimonio del giovane principe,
sulla via del ritorno venne ferita ad un piede da una spina.
Mentre accennava a
mostrarcela, tra la nostra curiosa attenzione, diceva: se la tocco, sento un gran male!
Faccela vedere.
Faccela vedere, dicevamo in coro.
Sorrideva
abbassando di più l’ampia veste e sorseggiando il suo meritato bicchiere di
vino.
La fine del
racconto coincideva con il sopraggiungere del buio
La cucina si
svuotava.
La mamma
raccoglieva la brace ardente posandola nei bracieri di rame che distribuiva per
la casa.
Noi ci mettevamo a
studiare.
I piedi si
raffreddavano presto e il fiato diventava vapore.
Fuori ormai
nevicava senza pietà e senza vento, in un silenzio irreale.
Si avvertiva ogni
tanto qualche calpestio ovattato dalla soffice bambagia che si attaccava alle
suole.
Il silenzio era
rotto dallo stridio di una paletta che toglieva la neve dal gradino di casa, e
dal miagolare di un gatto che trovava la porta chiusa.
Non vedevamo l’ora
di cenare e di godere il caldo tepore del letto.
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da UOMINI, TRADIZIONI, VITA E COSTUMI DI MORMANNO
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