domenica 17 gennaio 2016

Tradizioni invernali. Il maiale





Il poeta cosentino Michele De Marco detto Ciardullo a proposito del maiale diceva che   è la ricchezza della casa[1], una vera abbondanza. 
Per conseguirla bisognava rispettare alcuni tempi e attenersi ad una prassi ancestrale e rituale.
Si cominciava anzitutto col comprare un bel rivòtu[2], possibilmente sanàtu[3].
L’occasione migliore era la fiera di S. Lorenzo.
Se non poteva essere acquistato in contanti si otteneva anche con il baratto o con altre forme di compensazione.
Chi ne aveva disponibilità lo teneva in campagna.
Ad una crescita più rapida ed equilibrata contribuivano anche l’erbe rinate dopo la calura estiva. Al finire dell’estate di San Martino veniva portato in paese e, accolto  con tutti gli onori, occupava il posto nella zìmma[4] e nel cuore di tutta la famiglia. 
Le donne di casa erano deputate alle sue cure.
Per ingrassarlo si metteva in pratica un rigoroso procedimento.  
Non si buttava più l’acqua lorda cioè quella derivante dalla rigovernatura dei piatti e delle stoviglie. Anzi si recuperava anche quella dei vicini. 
Poi bisognava comprare la crusca perché non bastava quella appositamente conservata in casa ove si faceva il pane alla maniera antica, Era adoperata per il pastone giornaliero farcito con mais crudo, patate cotte, prughìgghj, cioè le bucce degli ortaggi o della frutta in genere, e con ogni  altro avanzo dei pranzi.
Quando la stagione si faceva più fredda e l’appetito della bestiola aumentava, si ricorreva a cibi più nutrienti quali ghiande e castagne. 
Le migliori patate erano quelle di Campotenese o del Pantano.  Le ghiande, quelle di Filomato. Le castagne cùrce si raccoglievano nei boschi di Guḍḍàvu o di Santa Dumìnica e zone limitrofe[5]  Quelle ‘nzèrte, provenienti dal Pantano, erano  vere e proprie derrate alimentari per la famiglia. Si conservavano secche o passate al forno. 
E si arrivava sotto Natale. Il maiale mangiava, dormiva e ingrassava. Sopraggiungevano i  freddi invernali.
La neve cadeva in abbondanza e la notte gelava. I piziferri[6] si  sporgevano come spade dalle tegole. A casa si cominciava a parlare di morte. Aspettiamo fino a Sant’Antonio[7], diceva la mamma, ci farà la grazia di non far irrancidire il salame!
Va bene così, confermavano tutti: saremo anche in carnevale e una bella sfrittuliàta[8] non guasterà!
I bambini erano preoccupati. I più grandicelli cominciavano a leccarsi ...i baffi! Una bella sera si decise: dopodomani si fa festa!
Bisognò andare da compare Nunzio a procurarsi ù scànnu[9] e da compare Giuseppe ù pilatùru[10].
Il nonno è indaffaratissimo. Non delega nessuno.
Deve preparare la legna per la grossa caldaia nella quale bollirà l’acqua, assicurarsi che la cèntra[11] non sia fuori uso e poi questo e quello e quello ancora...
Con calma fa tutto.
Pensate: aveva già procurato i pirtugàlli[12] barattando con la papasirona[13] cinque chili di patate per una decina di essi che nessuno aveva visto, per fortuna!
Al giorno fatidico, sul far dell’alba ecco i macellai.
Sono i chjanghèri[14] più esperti, quelli da sempre chiamati che conoscono anche la casa ed in essa sanno muoversi bene.
Portano i loro affilati coltelli e la cordicella, à sàvula, che servirà per imbrigliare il grugno del maiale, passandogliela fra i denti.
Mentre beatamente dorme, con un rapido guizzo dei carnefici, è immobilizzato. Fa solo a tempo ad emettere due o tre urla.
A quel lacerante grido si svegliano i ragazzi, dai più grandi ai più piccoli, e accorrono in cucina, già piena di vapore e calda di fuoco.
Poco dopo arriva il morto e s’inizia la sua lavorazione.
Prima viene depilato e lavato. Poi, trovati i tendini delle sue zampe posteriori, viene appeso al gammèri[15], a testa in giù.
Comincia un’operazione alla quale assistono grandi e piccoli.
E’ il macellaio più anziano che procede.
Lo spacca davanti partendo dall’inguine per arrivare alla gola.
Dietro poi parte dalla coda e scende giù fino al collo.
La lama affonda nel lardo.
Il nonno infila la mano nella fessura e ne misura lo spessore.   
Binidìca dice!
Ride!
Si tolgono le fumanti interiora. Arriva comare Rosa con la cesta pronta per prendere li stintìni[16] e portarli a lavare al fiume. Saranno poi messi in acqua con sale, aceto e due o tre arance, per farli sbommicà[17] ed essere pronti per insaccarvi la carne.
Sui glutei del morto si appendono i polmoni, il cuore ed il fegato. Se l’animale è un maschio si evidenzia il sesso facendo cadere sulle dorso il membro ancora ancorato al suo lungo cordone.
Sono intanto le dieci del mattino. Per oggi le operazioni sono terminate. Si pulisce la casa. Prima di mezzogiorno passerà il veterinario per la visita.
Solo la sera sarà consentito mangiare un po' di fegato arrostito se ve n’è rimasto dopo la sua spartizione al dottore, al proprietario   del pilatùru, a quello dello scànnu, alla vicina dell’àccua lòrda,  àllu signuri  compari sangiuvànnii[18].  
All’alba del terzo giorno ritorna il macellaio anziano e comincia a selezionare il maiale ormai completamente raffreddato.
Per prima cosa taglia la testa che posa sul davanzale col muso rivolto alla strada e con un’arancia tra i denti. 
Tutti sanno così che in quella casa si fa festa.
La stanza intanto comincia riempirsi di pezzi di carne. Si selezionano per uso.
C’è la carne per la salsiccia, quella per la soppressata, quella per il capocollo, quella da cucinare, quella da mettere in salamoia.
C’è poi il lardo, la pancetta, ‘u pilatèḍḍu[19], ci sono i grassi per fare i cìculi[20]… ce n’è per tutti i gusti!
Nel frattempo sono arrivati gli aiutanti.
Sono le vecchie zie e altri esperti del vicinato. 
Tutti sono comandati dal nonno che con un affilato coltello in mano guida questa banda di scotennatori.
Dalla cucina viene un buon odore: con la pasta di casa, i rascatèḍḍi , si mangerà parte della costata fritta con patate.
Ad un certo momento il nonno sparisce.
Quando riappare ha in mano un bella cannatèḍḍa[21] di vino.
Si mangerà pure il sangue, fritto con peperoni secchi e piccanti.
Che allegria. Dal morto risorge la vita!
La casa è piena di odori.
Per almeno una settimana si lavora sodo. Si insaccano le salcicce, e le soppressate. Non si butta nulla. La cotenna si mette in salamoia. La sugna, la gelatina, e i ciccioli in appositi vasetti di creta. Pensate che anche le setole sono ambite. Serviranno per fare spazzole, fiocchi da barocciaio, guarnizioni per museruole di asini, muli e cavalli. Il calzolaio le adopererà per far passare il filo con cuce le scarpe nei buchi fatti nella suola con la ssùgghja[22].
Il maiale sfama e sfamerà tutti, parenti e vicini compresi. Elargirà i suoi doni fino all’estate.
Le serate si concludono sotto l’ampia cappa del camino e con comare Gànnina[23] che intona canzoni ad aria[24] tra cui quella del Cùpi-cùpi[25].





[1] Traggo dalla sua poesia Jennaru.
Puorcu! Gioia, ricchezza d’ogne casa, grannizza vera, pumpusia frunuta!
Ccu lu filiettu mpacchi la prim’asa la fragagliella, mo cce vò, t’aiuta!…
E all’urtimu, quatrà, cc’è la quadra!…Cchi cc’è allu munnu chi ssa cosa appara?!...
[2] Già da tempo avvezzo ad una alimentazione varia.  Lat.revolutus.
[3] Castrato, se maschio, e privato dell’utero e dell’ovaia se femmina. I sanapurcèḍḍi (castratori di maiali) erano per la maggior parte lainesi che giravano di casa in casa proponendo l’operazione. Questa risultava per la verità oltremodo cruenta e dolorosa, praticata con coltelli disinfettati alla fiamma. Le ferite venivano legate con spago e cosparse di cenere.
[4]  Stalla che in paese si trovava all’interno di un magazzino o in un angolo di un cortile all’aperto. Nei tempi di vera miseria veniva accolto nell’unica stanza e trovava posto sotto il letto. Tale camera ospitava pure le galline che sul far della sera rientravano attraverso un’apertura posta in basso sull’anta del porta e si appollaiavano sulla scala di legno che conduceva al chiangàtu, lat.plancatus, sottotetto.
[5] Contrade di Mormanno sovrastate da Montecerviero.
[6] I ghiaccioli.
[7] S. Antonio abate, protettore degli animali, si festeggia il 17 gennaio. Anticamente in quel giorno o nei successivi cominciava l’ecatombe delle povere bestie che si concludeva di norma l’ultimo giorno di carnevale.
[8]  Frittura di carne.
[9]  E’ una specie di culla ricavata da un tronco d’albero incavato e tenuto in piedi da quattro pioli di legno. La forma avvolgente dello strumento consente di adagiarvi la bestia che così sdraiata e col grugno legato da una resistente e sottile cordicella presta più facilmente il collo al carnefice.
[10] Una cassa senza coperchio costruita come un parallelepipedo a sponda bassa in cui si pone il maiale ucciso per essere depilato con acqua bollente che fuoriesce attraverso un canale di legno ritornando alla caldaia da cui si riattinge.
[11] La campanella. Era conficcata nella trave più grossa e resistente della cucina.
[12]  Arance.
[13]  Abitante di Papasidero. Qui, dato il clima più mite vi cresce l’arancio.
[14]  La voce è mediata dal latino planca = macelleria, in dialetto chiànga.
[15]  Pezzo di legno incurvato ad arco al quale si appendeva per le gambe l’animale morto.
[16]  Intestini.
[17]  Decantarsi e pulirsi.
[18]  Chi ha battezzato o cresimato uno dei figli. Cumpàri Sangiovànni in ricordo di San Giovanni Battista che battezzò Gesù. Il comparaggio era sacro. Cumpàri Sangiuvànni spartemùni li pànni, li pànni su spartùti e San Giuvànni cè trasùtu. Significa che il legame è così forte e sincero che si possono addirittura dividere i panni, che, per estensione, sono tutte le ricchezze.
[19] Pezzetti di lardo contenenti anche strisce di carne.
[20] Ciccioli
[21] Brocca, piccolo cratere ad un solo manico, Dal latino canna, gola.
[22]  Lesina
[23]  Annina
[24] Erano canzoni ad aria tutti quei motivi sottesi da un tema musicale a ritmo binario che cantavano le fatiche dei campi, quelle della casa, gli amori dei ragazzi ed in genere l’amore, quello vero che è in definitiva il vero sale della vita. E li vòi tòrnu tàrnu e zà Ròsa, ‘ntra lu fòrnu; Mi nni vurrìa ì, ecc.
[25]  Per maggiori approfondimenti vedi il mio: Uomini, tradizioni , usi e costumi di Mormanno,

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