
Per conseguirla
bisognava rispettare alcuni tempi e attenersi ad una prassi ancestrale e
rituale.
L’occasione
migliore era la fiera di S. Lorenzo.
Se non poteva
essere acquistato in contanti si otteneva anche con il baratto o con altre
forme di compensazione.
Chi ne aveva
disponibilità lo teneva in campagna.
Ad una crescita più
rapida ed equilibrata contribuivano anche l’erbe rinate dopo la calura estiva.
Al finire dell’estate di San Martino veniva portato in paese e, accolto con tutti gli onori, occupava il posto nella zìmma[4] e nel
cuore di tutta la famiglia.
Le donne di casa
erano deputate alle sue cure.
Per ingrassarlo si
metteva in pratica un rigoroso procedimento.
Non si buttava più
l’acqua lorda cioè quella derivante
dalla rigovernatura dei piatti e delle stoviglie. Anzi si recuperava anche
quella dei vicini.
Poi bisognava
comprare la crusca perché non bastava quella appositamente conservata in casa
ove si faceva il pane alla maniera antica, Era adoperata per il pastone
giornaliero farcito con mais crudo, patate cotte, prughìgghj, cioè le bucce degli ortaggi o della frutta in genere, e
con ogni altro avanzo dei pranzi.
Quando la stagione
si faceva più fredda e l’appetito della bestiola aumentava, si ricorreva a cibi
più nutrienti quali ghiande e castagne.
Le migliori patate
erano quelle di Campotenese o del Pantano.
Le ghiande, quelle di Filomato. Le castagne cùrce si raccoglievano nei boschi di Guḍḍàvu o di Santa Dumìnica e zone limitrofe[5] Quelle ‘nzèrte,
provenienti dal Pantano,
erano vere e proprie derrate alimentari
per la famiglia. Si conservavano secche o passate al forno.
E si arrivava sotto
Natale. Il maiale mangiava, dormiva e ingrassava. Sopraggiungevano i freddi invernali.
La neve cadeva in
abbondanza e la notte gelava. I piziferri[6] si sporgevano come spade dalle tegole. A casa si
cominciava a parlare di morte. Aspettiamo fino a Sant’Antonio[7],
diceva la mamma, ci farà la grazia di non far irrancidire il salame!
Va bene così,
confermavano tutti: saremo anche in carnevale e una bella sfrittuliàta[8] non
guasterà!
I bambini erano
preoccupati. I più grandicelli cominciavano a leccarsi ...i baffi! Una bella
sera si decise: dopodomani si fa festa!
Il nonno è
indaffaratissimo. Non delega nessuno.
Deve preparare la
legna per la grossa caldaia nella quale bollirà l’acqua, assicurarsi che la cèntra[11] non
sia fuori uso e poi questo e quello e quello ancora...
Con calma fa tutto.
Pensate: aveva già
procurato i pirtugàlli[12] barattando con la papasirona[13]
cinque chili di patate per una decina di essi che nessuno aveva visto, per
fortuna!
Al giorno fatidico,
sul far dell’alba ecco i macellai.
Sono i chjanghèri[14] più
esperti, quelli da sempre chiamati che conoscono anche la casa ed in essa sanno
muoversi bene.
Portano i loro affilati
coltelli e la cordicella, à sàvula,
che servirà per imbrigliare il grugno del maiale, passandogliela fra i denti.
Mentre beatamente
dorme, con un rapido guizzo dei carnefici, è immobilizzato. Fa solo a tempo ad
emettere due o tre urla.
A quel lacerante
grido si svegliano i ragazzi, dai più grandi ai più piccoli, e accorrono in
cucina, già piena di vapore e calda di fuoco.
Poco dopo arriva il
morto e s’inizia la sua lavorazione.
Prima viene
depilato e lavato. Poi, trovati i tendini delle sue zampe posteriori, viene
appeso al gammèri[15], a
testa in giù.
Comincia
un’operazione alla quale assistono grandi e piccoli.
E’ il macellaio più
anziano che procede.
Lo spacca davanti
partendo dall’inguine per arrivare alla gola.
Dietro poi parte
dalla coda e scende giù fino al collo.
La lama affonda nel
lardo.
Il nonno infila la
mano nella fessura e ne misura lo spessore.
Binidìca dice!
Ride!
Si tolgono le
fumanti interiora. Arriva comare Rosa con la cesta pronta per prendere li stintìni[16] e
portarli a lavare al fiume. Saranno poi messi in acqua con sale, aceto e due o
tre arance, per farli sbommicà[17] ed
essere pronti per insaccarvi la carne.
Sui glutei del
morto si appendono i polmoni, il cuore ed il fegato. Se l’animale è un maschio
si evidenzia il sesso facendo cadere sulle dorso il membro ancora ancorato al
suo lungo cordone.
Sono intanto le
dieci del mattino. Per oggi le operazioni sono terminate. Si pulisce la casa.
Prima di mezzogiorno passerà il veterinario per la visita.
Solo la sera sarà
consentito mangiare un po' di fegato arrostito se ve n’è rimasto dopo la sua
spartizione al dottore, al proprietario del pilatùru,
a quello dello scànnu, alla
vicina dell’àccua lòrda, àllu
signuri compari sangiuvànnii[18].
All’alba del terzo
giorno ritorna il macellaio anziano e comincia a selezionare il maiale ormai
completamente raffreddato.
Per prima cosa
taglia la testa che posa sul davanzale col muso rivolto alla strada e con
un’arancia tra i denti.
Tutti sanno così
che in quella casa si fa festa.
La stanza intanto
comincia riempirsi di pezzi di carne. Si selezionano per uso.
C’è la carne per la
salsiccia, quella per la soppressata, quella per il capocollo, quella da
cucinare, quella da mettere in salamoia.
C’è poi il lardo,
la pancetta, ‘u pilatèḍḍu[19], ci sono i grassi
per fare i cìculi[20]… ce n’è per tutti
i gusti!
Nel frattempo sono arrivati gli
aiutanti.
Sono le vecchie zie
e altri esperti del vicinato.
Tutti sono
comandati dal nonno che con un affilato coltello in mano guida questa banda di
scotennatori.
Dalla cucina viene
un buon odore: con la pasta di casa, i
rascatèḍḍi , si mangerà parte della
costata fritta con patate.
Ad un certo momento
il nonno sparisce.
Quando riappare ha
in mano un bella cannatèḍḍa[21] di
vino.
Si mangerà pure il
sangue, fritto con peperoni secchi e piccanti.
Che allegria. Dal
morto risorge la vita!
La casa è piena di
odori.
Per almeno una
settimana si lavora sodo. Si insaccano le salcicce, e le soppressate. Non si butta
nulla. La cotenna si mette in salamoia. La sugna, la gelatina, e i ciccioli in
appositi vasetti di creta. Pensate che anche le setole sono ambite. Serviranno
per fare spazzole, fiocchi da barocciaio, guarnizioni per museruole di asini,
muli e cavalli. Il calzolaio le adopererà per far passare il filo con cuce le
scarpe nei buchi fatti nella suola con la ssùgghja[22].
Il maiale sfama e
sfamerà tutti, parenti e vicini compresi. Elargirà i suoi doni fino all’estate.
Le serate si
concludono sotto l’ampia cappa del camino e con comare Gànnina[23] che
intona canzoni ad aria[24] tra cui quella del Cùpi-cùpi[25].
Puorcu! Gioia, ricchezza d’ogne casa, grannizza vera,
pumpusia frunuta!
Ccu lu filiettu mpacchi la prim’asa la fragagliella, mo cce vò, t’aiuta!…
E all’urtimu, quatrà, cc’è la quadra!…Cchi cc’è allu munnu chi ssa cosa appara?!...
Ccu lu filiettu mpacchi la prim’asa la fragagliella, mo cce vò, t’aiuta!…
E all’urtimu, quatrà, cc’è la quadra!…Cchi cc’è allu munnu chi ssa cosa appara?!...
[2] Già da tempo
avvezzo ad una alimentazione varia. Lat.revolutus.
[3] Castrato, se
maschio, e privato dell’utero e dell’ovaia se femmina. I sanapurcèḍḍi (castratori di maiali) erano per la maggior parte
lainesi che giravano di casa in casa proponendo l’operazione. Questa risultava
per la verità oltremodo cruenta e dolorosa, praticata con coltelli disinfettati
alla fiamma. Le ferite venivano legate con spago e cosparse di cenere.
[4] Stalla che in paese si trovava all’interno di
un magazzino o in un angolo di un cortile all’aperto. Nei tempi di vera miseria
veniva accolto nell’unica stanza e trovava posto sotto il letto. Tale camera
ospitava pure le galline che sul far della sera rientravano attraverso
un’apertura posta in basso sull’anta del porta e si appollaiavano sulla scala
di legno che conduceva al chiangàtu,
lat.plancatus, sottotetto.
[5] Contrade di
Mormanno sovrastate da Montecerviero.
[6] I ghiaccioli.
[7] S. Antonio abate,
protettore degli animali, si festeggia il 17 gennaio. Anticamente in quel
giorno o nei successivi cominciava l’ecatombe delle povere bestie che si
concludeva di norma l’ultimo giorno di carnevale.
[8] Frittura di carne.
[9] E’ una specie di culla ricavata da un tronco
d’albero incavato e tenuto in piedi da quattro pioli di legno. La forma
avvolgente dello strumento consente di adagiarvi la bestia che così sdraiata e
col grugno legato da una resistente e sottile cordicella presta più facilmente
il collo al carnefice.
[10] Una cassa senza
coperchio costruita come un parallelepipedo a sponda bassa in cui si pone il
maiale ucciso per essere depilato con acqua bollente che fuoriesce attraverso
un canale di legno ritornando alla caldaia da cui si riattinge.
[11] La campanella. Era
conficcata nella trave più grossa e resistente della cucina.
[12] Arance.
[13] Abitante di Papasidero. Qui, dato il clima
più mite vi cresce l’arancio.
[14] La voce è mediata dal latino planca = macelleria, in dialetto chiànga.
[15] Pezzo di legno incurvato ad arco al quale si
appendeva per le gambe l’animale morto.
[16] Intestini.
[17] Decantarsi e pulirsi.
[18] Chi ha battezzato o cresimato uno dei figli. Cumpàri Sangiovànni in ricordo di San
Giovanni Battista che battezzò Gesù. Il comparaggio era sacro. Cumpàri Sangiuvànni spartemùni li pànni, li
pànni su spartùti e San Giuvànni cè trasùtu. Significa che il legame è così
forte e sincero che si possono addirittura dividere i panni, che, per
estensione, sono tutte le ricchezze.
[19] Pezzetti di lardo
contenenti anche strisce di carne.
[20] Ciccioli
[21] Brocca, piccolo
cratere ad un solo manico, Dal latino canna,
gola.
[22] Lesina
[23] Annina
[24] Erano canzoni ad
aria tutti quei motivi sottesi da un tema musicale a ritmo binario che cantavano
le fatiche dei campi, quelle della casa, gli amori dei ragazzi ed in genere
l’amore, quello vero che è in definitiva il vero sale della vita. E li vòi tòrnu tàrnu e zà Ròsa, ‘ntra lu
fòrnu; Mi nni vurrìa ì, ecc.
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