lunedì 13 marzo 2017

La festa di San Giuseppe a Mormanno




 ‘A lìnna ‘a lìnna …a Sangisèppi!

Dal latino cum-vivo, vivo insieme, convivo, la parola, oltre al significato anzidetto, ha assunto già nei tempi antichi, vedi Quintiliano, il senso di mangiare insieme.
Il verbo convivo nella sua forma deponente, diventa convivor con il significato di banchettare.
 Il linguaggio dei nostri padri passa direttamente nel nostro, il termine diventa, a Mormanno, cummìtu, tradotto in lingua in convito.
L’antico arcaico senso del cum-vivo resta invariato nel dialetto: il cum è identico; il seguente mìtu o mmìtu (con il raddoppio della iniziale) è dato dalla trasformazione della labiale v di vivo nella nasale sonora m, per assimilazione alla precedente del cum.
E qui è anche doveroso entrare  in fondo al discorso e sottolineare la differenza tra cummìtu e mmìtu.

Il  primo ha il significato di partecipazione ampia di persone.
Il secondo, senza il cum, esclude l’ampiezza dei partecipanti, restringendo la cerchia a pochi.
La differenza quindi tra cummìtu e mmìtu non è solamente grammatico-letteraria, ma sostanziale come atteggiamento e valore di vita.
Tutta questa premessa perché mi sono ricordato che il prossimo 19 marzo nel giorno che la chiesa cattolica dedica a San Giuseppe, operaio e padre putativo, a Mormanno si svolge il cummìtu.
Lo stare insieme e soprattutto il mangiare insieme è un atteggiamento e un modo di agire specifico dell’uomo.
Senza scomodare la psicologia, ma appena la storia, è in quella occidentale che troviamo descritti famosi conviti a cominciare da quelli citati da Omero (i banchetti dei Proci nella reggia di Ulisse, quello presso i Feaci),  i simposi romani raccontati da Petronio nel Satiricon,  le  nozze di Cana, Vangelo secondo Giovanni (2,1-11), per passare alle loro raffigurazioni, in dipinti sui vasi etruschi, in affreschi pompeiani, e più vicino nel tempo, in vari cenacoli tra cui il famosissimo vinciano presente in Santa Maria delle Grazie, Milano,  fin dal 1498.

Attraversando rapidamente  il passato, arriviamo a Tortora per incontrare un concittadino girovago pittore[1] che affrescando la decollazione del Battista, ci descrive un banchetto sontuoso  in un ambiente finemente signorile impreziosito da una tavola riccamente e  variamente imbandita.
Dopo questo excursus rieccoci a Mormanno per il Convito di San Giuseppe.
Da quanto tempo si svolge? Chi ha introdotto la tradizione[2]? Sono domande interessanti per avviare una ricerca. Restano purtroppo senza una risposta certa e documentata perché non ne ho trovata menzione negli scritti degli storici paesani.
Esiste il fatto in sé, la tradizione come meglio dire, che col tempo va perdendo fervore.
Sembra che il cummìtu si fosse fatto per la prima volta per ringraziare il Santo per favori ricevuti da un valdese di Guardia Piemontese rifugiatosi a Mormanno. Costui vide in sogno il Patriarca che gli suggerì di invitare a pranzo tre poveri: una persona anziana, una donna  e un bambino come se fossero proprio i componenti della sacra famiglia: Giuseppe, Maria e Gesù Bambino[3].
La cosa ebbe seguito e col tempo furono invitate più persone, specialmente indigenti.
A Mormanno, fino agli inizi del secolo scorso, questo fatto delle tre persone era ancora ricordato. In certe famiglie, come quella dei Filomena, una tale Donna Angelina, siamo negli anni quaranta, invitava giusto tre persone.[4]
Leggenda e...storia.
Il fatto è che durante tutto il 1800 ed il decorso 1900 (e qui attingo direttamente alla mia memoria), a Mormanno, per il 19 marzo, si tenevano più conviti.
Si aprivano a tutti i portoni di casa.
I conviti si svolgevano a casa Rossi, a memoria della signora Brigida Rotondaro, zzà Brìcita, a casa di Temistocle Armentano, don Timìsticu, in molte altre case di contadini, agricoltori e massàri.
Si tenne anche regolarmente un convito presso le Suore, Asilo Infantile L. Romano, fino agli anni 70/80.
Oggi è deputato alla continuazione della tradizione il Centro Anziani.
Il pranzo consisteva in un piatto di tagliolini e ceci; un assaggio di fagioli; un pezzo di baccalà fritto, un bicchiere di vino, acqua e pane.
La razione era individuale e non ripetibile nello stesso posto.
I più affamati giravano il paese in cerca di altre case ospitali.
A questa festa interveniva anche gente del contado e dei paesi vicini.
La devozione verso S. Giuseppe si manifestava anche preparando e distribuendo, sia in casa e sia in chiesa, dopo la prima messa[5], panittèḍḍi, panini, ed allestendo, nel pomeriggio ed in ogni vicinato, la fagòna, il falò, che bruciava legna procurata da schiere di ragazzi che almeno un mese prima avevano bussato e ribussato a tutte le porte del proprio rione, gridando ’a lìnna ’a lìnna a Sangisèppi[6].



[1] Genesio Galtieri, anno 1799,  volta della chiesa di S. Pietro in Tortora. Il dipinto non esiste per il crollo della volta avvenuto negli anni ’50. Il bianco e nero che vediamo è una foto fatta scattare prima della demolizione dal parroco pro tempore don Francesc o Donadio da Castrovillari-
[2] Suggerite dall’amico e compaesano Ottavio Mazzafera, residente a Mentone.
[3] Vedi nota precedente.
[4] Casa Filomena era quella che aveva avuto i natali il fisico Francesco. La Donna Angelina che io stesso ricordo, era la madre del notaio Vincenzo e dell’avv. Luigi.
[5]  La messa si celebrava sul far del giorno.
[6]  Dove si trovano i due dipinti raffiguranti la Morte di San Giuseppe?


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