Leggendo Dante,
parafrasando Leopardi e ricordando altri poeti e letterati.
Illusioni
e sforzi
dei
nostri avi.
Ma
ancor altro io vedo.
Vedo
ladri, imbroglioni, arruffatori,
troie
e puttane
da
siliconati petti
che
ti rendono inerme,
denudata,
irrisa, svergognata.
Qual
porcheria, quale schifezza io veggio.
Sento
suonare solo bunga bunga.
Chiedo
al cielo
e
al mondo: dite, dite,
chi
la ridusse a tale?
C’è
ancor di peggio?
Si!
Ancora
braccia di catene carche.
I
giovani?
non
considerati,
a
lor stessi lasciati,
sconsolati,
rifiutati
dalle istituzioni
che
dovrebbero nascondere la faccia
e
pianger di vergogna
per
tutto il male che compiendo vanno.
L’itala
speme or corre destinata
ad
altra sorte
da
feticci allettata e da illusioni,
da
rombi di motori,
da
falsi promotori,
da
isole famose,
da
sballi quotidiani,
da
pederasti insani.
Tutti
i nostri signori governanti
con
il culo attaccato alle poltrone,
massa
indistinta di poveri ignoranti,
messi
qui nella vigna a far da pali,
continuano
nel danno e nello scorno
servi
ed ancelle del beffante Creso
che
se ne fotte di chi parla e scrive
e
del potere avuto si fa vanto
dimenticando
e questo e quello
ed
il valore della stirpe antica.
Il
grande capo ha una sola idea
perseguita
con fervida costanza:
disunire
il popolo italiano
che
cercò sempre con sangue e con fatica
di
svincolarsi dalla mal baldanza
di
cesari ammantati d’auree bende
e
d’arroganti e ameni presidenti.
Dopo
gli anni cinquanta
si
sperarono orizzonti senz’ armi.
Ma
fu vano desio!
Dopo
l’atomica
tanti
altri fochi
e
tanto sangue ancora
inondò
la Terra.
Africa,
Cina,
Vietnam,
Palestina,
suonaron
d’armi e di voci di guerra
e
carri e grida e suono di timballi
in
estranee contrade
ucciser
tanta inerme umanità.
Da
tutto il contesto ch’hai tu visto,
nulla
hai imparato, amata Italia mia.
E
c’eran fumi, polveri e spade,
tra
nebbia, lampi,
atomi
vaganti,
di
madri pianti,
tremebondi
figli,
campi
sparsi di corpi moribondi.
Hai
fabbricato invece nuovi acciari
fornendoli
a tanta gente oppressa
che
moriva
per
la famiglia, la libertà,
il
pane,
beffeggiata
da infami dittatori
incuranti
di chi tanto languìa
per
la loro ricchezza ed albagia.
Tu
fabbricasti armi, Italia mia.
Per
portar poi soccorso
sei
andata a guerreggiar
su
altre sponde.
Avresti
con diversi altri sostegni
onorato
più impegni
pacificando
animi e tensioni.
Ἐ
una strada che non hai percorso.
Poi,
a chi lotta
per
sottrarsi a morte in patrio suol,
di
lacrime sparse ambo le guance,
e
con le mani giunte viene
implorando
aiuto,
sai
fare viso muto.
Ormai
più non governi neppure
i
figli tuoi.
Il
siculo, il calabro, il campano,
il
pugliese, il lucano, il molisano,
che
han fatto la ricchezza del Paese
stiano
nel sud.
Siete
i terùn, non pagate i tass,
non
vi piace il laùr, statevi là.
Roma
ladrona non sarà padrona.
Fora dai ball come i maroc.
Povera
Italia!
A
chi fuggìa cancelli e focolari
hai
dato in faccia,
tanti
pesci amari.
Povera
Italia,
come
sei in basso.
Che
risate fai fare al mondo intero
che
non segue oramai nessun tuo passo.
Eppure
un dì gli fosti sentiero!
Povera Italia, di dolore ostello
nave senza nocchiero in gran tempesta,
non donna di provincia ma bordello.
Ἐ
tempo ormai di una gran burrasca,
d’uno
tsunami, una provvida scopa,
quella
di don Lisandro,
per
ripulire ogni meandro,
per
spazzar via i ladri,
gli
imbroglioni,
i
subdoli lenoni,
gli
arrivisti,
chi
vende religioni,
i
mistificatori,
le
legioni
di
sfaccendati,
le
solite facce,
i
soliti inamovibili soloni,
la
mandria
dei
pecoroni,
i
novelli proci
e
i taffianti orchi,
cui
darei una pesante zappa
da
far curvar la schiena,
da
far venir le piaghe
anche
alla nappa
che
paluda lor groppe.
Vadano
a casa
i
tanti girella e insieme a loro
i
re travicello.
La
festa è finita, i guasti
son
tanti
siamo
rimasti
davvero
in mutande.
Or
basta, si, basta!
Nuovi
destrieri,
altri
pensieri
vuole
l’Italia.
Questo
si spera.
Col
petto ansante
e
vacillante
il
piede
non
potrò più pugnar.
Dammi
o ciel che sia foco agli italici petti
il
fuoco mio
e
che nell’alma terra
finisca
questa guerra.
Scherzare
ormai non vale.
S’accenda
nuova face
di
pace
sociale.
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