BREVE STORIA DI MORMANNO
“Chi, movendo da Napoli alla volta della Calabria, giunto là dove questa confina con la Basilicata, volgasi a destra, vede fra i monti il principio di un abitato.
Quivi è Mormanno, terra in cui vive gente operosa e sagace, mostrando che presso al nido dell’aquila suol trovarsi la cura dell’ingegno.
Nel tempo degli avi nostri fu detta l’Atene calabra, nome che i loro giovani nipoti hanno il dovere di renderle.
Io la saluto intanto e le chiedo scusa se altro per essa non ho potuto che amarla e pregiarmi d’esservi nato.
Ciò avvenne il 22 gennaio 1803, mentre la città era riccamente vestita di neve e le case inghirlandate da diaccioli pendenti dalle gronde”.
Il pensiero è tratto dal libro Schizzo del mio testamento, all’inizio del I capitolo, sotto il titolo Il mio nido di neve scritto da Domenico Anzelmi (Vedi il mio: Uomini illustri di Mormanno, pagina 62, 63).
La nascita di Mormanno risalirebbe, secondo studiosi locali, in pieno medioevo bizantino. Poche e insicure sono le memorie.
Possiamo notare come, dopo la conquista giustiananea, conclusa dalla lunga e durissima guerra greco-gotica, tutta l’Italia meridionale sia divenuta bizantina.
La successiva calata dei Longobardi lasciò all’impero d’oriente la Calabria meridionale e centrale e la Terra d’Otranto, perché tutta la zona che si estende dal corso del Crati alla Campania e alla Puglia venne assorbita dal ducato di Benevento che si scisse poi nel principato omonimo e nell’altro di Salerno.
E ciò fino a quando l’azione militare di Niceforo Foca riuscì a strappare ai Longobardi la Calabria settentrionale, la Lucania centrale e orientale e la Puglia, sia pure con incerti ed ondeggianti confini, ma non la Lucania occidentale, che rimase sempre longobarda fino alla conquista normanna.
In conseguenza si può dire che se l’ellenizzazione della Calabria meridionale e della Terra d’Otranto in possesso dell’impero dal 554 all’arrivo dei Normanni non può stupire, ci colpisce invece la grecità che si nota nella Calabria settentrionale, nella Lucania centrale e nelle Puglie, bizantine dall’886 alla metà dell’undicesimo secolo”. Biagio Cappelli Medioevo Bizantino nel Mezzogiorno d’Italia.
Il nome del posto appare per la prima volta agli inizi del X secolo d.C. in un racconto sulla vita di San Leoluca da Corleone che passò molto tempo in algore montium miromanorum, nel freddo dei monti di Mormanno. La zona mercuriense fu particolarmente adatta ai desideri dei monaci greci.
Dalla Vita di San Nilo, Atti SS., sept. VIII, 802, leggiamo:
Congregati in tuguriolis, in antris, in arboribus ipse vetustate concavatis, vitam dietim belluinam nisi eam coelestem potius et angelicam nuncupare divina in eam eloquis perducerent. Cibus erat ipsis glandes, castaneae fructusque, quos vicina regio coeli benignitate ministrabat et herbam radices; vestitus animalium pelles at tegendos potius artus, quam ad frigoris arcendos rigores. Vivebant extra carnem in carne, extra saeculum in saeculo; mundus eos non agnoscebat; eorum conversatio in coelis erat.
Rifugiati in tuguri, in caverne, negli stessi alberi concavi per la loro vecchiezza, conducevano una vita simile alle bestie, questo era il prezzo per il Paradiso. Si cibavano di ghiande, castagne e di quello che il posto offriva, comprese erbe e radici. Vestivano con pelli di animali per proteggere gli arti ed il corpo e per sopportare i rigori del freddo. Erano in carne senza mangiar carne, fuori dal mondo pur nel mondo che non conoscevano. Parlavano e dialogavano con il Cielo.
Gli asceti basiliani santificarono le aspre balze costruendo, spesso in luoghi impervi, chiese e monasteri ormai dispersi.
Il nome potrebbe aver avuto origine secondo Alessio, Dizionario di toponomastica, UTET, 1990, dal personale germanico Marimannus o Merimannus.
Potrebbe anche riferirsi alla presenza di militari germanici, gli arimanni, prima aggregati all’esercito longobardo e poi usati come mercenari ai quali il Principe di Salerno e Capua avrebbe concesso un territorio compreso tra il gastaldato di Laino e la rocca di Papasidero detto appunto mons arimannorum.
Vedi pag.18 de Il Paese Grigio di Napolitano-Grisolia, ed. Maganò Bordighera 1990.
Per una più chiara comprensione devo sottolineare che la storia civile si va confondendo con quella religiosa.
Della prima non si hanno documenti, tranne pochi atti quali annotazioni o passaggi di proprietà tra famiglie dominanti.
La seconda si desume da quelli esistenti e presso l’archivio parrocchiale e meglio presso quello vescovile di Cassano allo Jonio di cui il paese dipese, fin dalla sua origine.
Si accentuava intanto la divisione tra potere civile e potere religioso. Il primo, che comprendeva anche l’amministrazione della giustizia, continuò ad essere affidato alla nobiltà, quello feudale, ai vescovi di Cassano.
Qui debbo notare l’inesistenza di un archivio storico e l’impossibilità di consultare atti anche notarili che sono andati tutti dispersi per mancanza di conservazione e classificazione.
Il toponimo Μυρομαννασ, Muromannas, figura in un testo redatto in lingua greca dell’anno 1092.
Vedi: Biagio Cappelli, ibidem pagina 41. A proposito di lingua greca, voglio ricordare che a Mormanno si officiò in greco fino al 1324. A Laino tale rito si protrasse fino al 1562.
In un documento datato 3 dicembre 1101, appare il nome di Miromannum a proposito di una donazione che sarebbe stata fatta da Ugo di Chiaromonte, vassallo del Principe di Salerno e Capua, al vescovo Sasso della diocesi di Cassano allo Jonio.
Di tale scrittura che ritengono valida e veritiera parlano e Padre Francesco Russo in Storia della Diocesi di Cassano allo Jonio Napoli 1964 e il prof. Domenico Crea prima in Guida storica alla rievocazione del 1101 Ed. Il Coscile, pag. 31, 2002 e poi in Mormanno dalle origini alla fine del XVI secolo, Calabria Letteraria Editrice, 2008, pag.80,81,93,103,114,129.
Tale atto che io stesso in un primo tempo, traendolo dal citato P. Russo, avevo considerato vero, è, come fortunosamente ho scoperto, un falso storico. (vedi il mio Poveri e ricchi del settecento mormannese, Phasar, 2015).
La vantata donazione è paragonabile a quella che, protagonisti Costantino e Silvestro, spuntò fuori inaspettatamente nell’ottavo secolo in seguito alle vicende politiche che interessarono il papato di Stefano II.
Come l’umanista Lorenzo Valla, aveva dimostrato in modo inequivocabile la falsità della donazione su cui il papato aveva fondato la legittimità giuridica del suo potere temporale anche sulla base delle incongruenze filologiche rilevate nel documento da Niccolò Cusano in De falso credita et ementita Constantini donatione 1440, così più tardi e con pari professionalità e impegno, un avvocato mormannese, Vincenzo La Terza, difendendo l’Università di Mormanno, dimostrò l’infondatezza delle pretese dei Vescovi di Cassano.
Nella storia della Chiesa si ritrovano spesso e volentieri donazioni, a volte liberali. Solo per riferimento storico-letterario ricordo le grosse perplessità già espresse da Dante, Inferno,XIX, vv. 115-117: Ahi Costantin di qual mal fu matre non la tua conversion ma quella dote che da te prese il primo ricco patre.
A proposito del contenzioso settecentesco tra il Vescovo di Cassano allo Jonio e l’Università di Mormanno, vedi pure:
Ordo feudalis, ordo civitatis. di Saverio Napolitano in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, Anno LXXVII 2011 - pag 133-176.
Nel 1108 in una nota dotale si parla di beni posseduti a Muromana da tale Trotta figlia di Altruda che ne fa dono all’abate Nilo del monastero di Carbone. L’atto è compilato dal papas Costantino, prete di Muromanas.
Il monastero di Carbone fu fondato dai Santi Elia ed Anastasio dell’ordine di San Basilio quivi giunti dal Mercurion e fu parte della nuova eparchia della valle del Sinni. Di esso rimangono solo pochi ruderi in località Valle Cancello.
Nel 1186 in un documento scritto in latino appare Muromanna.
Biagio Cappelli ibidem pag. 38.
Nel 1195 un certo Pietro chiede ad Ilario, archimandrita del monastero di Carbone, di ornare la chiesa di S. Caterina di Muromannas.
Nel 1274 in un atto diretto al vescovo di Cassano allo Jonio, appare:
“Miromagna in quo sunt fucularia hominum ultra ducentum et tres et valet annuatim auri unciae XXXV. Nella città di Mormanno vi sono oltre duecentotre fuochi che producono una rendita annuale di 36 once d’oro.
L’oncia aveva un valore monetario variabile. In dialetto, ùnza, significa pochezza, miseria.
Non vàli mancu n’ùnza significa è di pochissimo valore.
Riferito a persone significa inaffidabilità, miseria morale. La voce focularia, cioè focolare, è sinonimo di famiglia. Fuochi sta quindi per famiglie.
In uno scritto della cancelleria Angioina, datato 27 luglio 1304 si parla di “terra Miromagne”.Napoli, Archivio di Stato, volume 155 intitolato Carolus II, foglio 992.
Tale dizione si ritrova pure in una petizione rivolta al vescovo di Cassano allo Jonio per riottenere il diritto di pascolo
da parte de “li homini di Miromagne” sul territorio di Layno.
E. Pandolfi, Catalogo citato.
In un atto della stessa cancelleria, volume 328, 16 marzo 1344, è menzionato ancora il nome della cittadina alla quale si concedevano privilegi di natura giudiziaria.
“Pro universitate castri Miromagne ex Johanna ac regentibus Curiam Viarie Regni Sicili”.
A favore della popolazione del castro (paese o luogo abitato) di Mormanno, da parte di Giovanna e dai reggenti la curia viaria del regno di Sicilia.
Il periodo storico è quello della lotta tra angioini e aragonesi. Universitas equivaleva all’insieme dei cittadini abitanti il castrum, paese o luogo ove la residenza era accertata e permanente.
Nel 1443 e nel 1465 in due diversi documenti rispettivamente di Alfonso I d’Aragona e di Ferdinando I d’Aragona diretti al vescovo di Cassano, si legge terrae Miromanni nel primo e Mormanno nel secondo.
Su di una pergamena che conteneva un contratto di compra vendita redatto da tale notaio Francesco De Leone nell’anno 1555 ancora in possesso nel 1800 del signor Alberto Genovesi, sottoscrivono sei testimoni che dichiarano di essere di Miromagno.
In questo stesso secolo si segnala un verbale della consacrazione della chiesa parrocchiale in onore di Maria Vergine Assunta fatta dal Vescovo pro tempore Giovan Battista Serbelloni, mercoledì 15 settembre 1568.
Ego D.nus Joannes Baptista Serbellonius, mediolanensis, episcopus consecravi ecclesiam ed altare hoc…
La costruzione di un edificio di culto richiese tempi diversi. Vediamo.
Il primo, più antico non sicuramente databile per mancanza di atti ma presumibilmente avvenuto intorno al 1100, vide l’impianto di una cappella dedicata a San Biagio, protettore della Diocesi di Cassano, che si trovava nel rione omonimo come ricorda Vincenzo Minervini in Mormanno d’una volta pag.15 (“esisteva presso il mattatoio una cappella dedicata a San Biagio. Io ne ricordo i ruderi, ora scomparsi. In essa vi era un quadro del Santo che ora si conserva in chiesa”). Il secondo fu la costruzione di un tempietto sul colle dell’Annunziata, pure dedicato a S. Biagio di cui continuava il culto, ed il terzo,1457, di una chiesa, attuale cripta, inaugurata, come ricordato, nel 1568, che modificata, ampliata e ricostruita, dopo due secoli di lavori, assunse l’attuale assetto,1790. Questa fabbrica, definitiva, ha inglobato tutto il preesistente.
Questo tempio è ricco di opere. Tra le più antiche segnalo:
• Madonna in trono con Bambino, in pietra arenaria, posta sul campanile protogotico databile al XIV secolo;
• Affresco della Madonna delle Grazie - prima cappella a sinistra- inizi del XVI secolo;
• Fonte battesimale in marmo di scuola nolana datato 1578 e cappello ligneo dei primi del 1600;
• Edicola marmorea dell’Olio Santo del 1511;
• Organo in legno di scuola napoletana costruito nel 1671;
• Bassorilievi in pietra arenaria raffiguranti i Santi Pietro e Paolo, oggi ai lati dell’altare della Madonna del Rosario, databili alla fine del XIV secolo, già posti all’esterno quale decoro di un edificio adibito a corpo di guardia o, probabilmente, sulla facciata del primo o secondo tempio.
• Cripta aperta al pubblico l’8.12.1997 dopo lavori di consolidamento finanziati con fondi CEE gestiti dalla Comunità Montana del Pollino.
Il 1500 è attraversato dalla superba figura dell’architetto e musico Giovanni Donadio, 1449-1530 (?) caposcuola del rinascimento napoletano.
Non ho notizia di uomini o studiosi e letterati del 1600.
Intanto la città che era stata governata dagli Orsini, passò nel 1612, ai Sanseverino che ne furono baroni.
Nel 1624 il feudo fu ceduto a tale Muzio Guaragna e un suo erede, Francesco, il 16 marzo del 1635, vendè la baronia, per 16.000 ducati dell’epoca, a Persio Tufarelli.
Il 4 aprile 1795 Filippo Tufarelli, suo discendente, dopo 160 anni di gestione, la cedette al potere sovrano in cambio di una pensione annua di 136 ducati.
Da allora Mormanno seguì politicamente la storia del Regno di Napoli fino all’avvento garibaldino per passare poi a far parte del Regno D’Italia.
Tra gli studiosi e letterati del 1700 per troviamo:
Antonio De Callis, Francesco Genovesi, Gaetano Ambrogio Rossi 1664-1767; Grisolia Michelangelo 1754-1794; Santo Maradei, Filippo Tufarelli.
Nel 1800 incontriamo:
Antonio D’Alessandro, Domenico Anzelmi, Carlo Capalbi, Giuseppangelo Greca, Fedele Perrone, Beniamino Sala, Tommaso Guaragna Galluppi.
Tutti hanno prodotto solo brevi studi pervasi da reminiscenze classiche, appena divulgati in cerchie strettissime, scritti per personale diletto o per omaggiare i potenti del tempo.
Meritano invece attenzione:
• i pittori girovaghi Angelo e Genesio Galtieri vissuti tra il 1700 e il 1800;
• il dottore in medicina e filosofia Francesco Filomena che scrive un Breve saggio sull’operazione dell’oppio e dell’aria fissa ed infiammabile negli animali secondo il sistema dell’elettricità Napoli 1781, in una ristampa curata dal dott. Giuseppe Leone, Pompei, dicembre 1986. Il Filomena che scrive nel 1781, può essere considerato un precursore di Galvani. Fu in corrispondenza con Alessandro Volta che solo nel 1800 renderà note le sue scoperte;
• il sacerdote. Francesco Saverio Bloise, autore di una grammatica latina e di un Vocabolario Latino-Italiano e Italiano-Latino;
• Perrone abate Nicola, studioso e autore, fra l’altro, di un vocabolario fatto in collaborazione con il Bloise.
Nel 1869 viene fondata di un’Accademia culturale La Società Filomatica che vedrà tra i suoi soci esterni anche Alessandro Manzoni.
Vediamo ora cosa era successo nei secoli.
Sostanzialmente si era trattato di un lungo periodo di asservimento ai poteri dominanti.
Che cosa aveva lasciato tale sottomissione?
Nei nobili un’accentuata miseria dovuta alla progressiva perdita del potere politico ed economico.
Già alla fine del 1800 essi avevano venduto tutto, fondi agricoli, palazzi e case.
Oggi nessuno ricorda più il loro casato. Erano i Galizia, ex proprietari della casa Pandolfi, i Tufarelli, ex proprietari della casa Sarubbi, i Genovese, della casa del dottor Nicola Armentano, i La Terza, casa in via S. Caterina, i Sarno, attuale casa del geometra Leone, i Minervini.
Già erano scomparsi da oltre 100 anni: i Sala proprietari di quel magnifico palazzo ormai smembrato posto come una sentinella nella discesa dello Scarnazzo; i Pace, casa Grisolia e Alberti; i Fazio, i Ciliberti e qualche altro. Sono ancora presenti eredi dei Capalbi.
Nel clero, prima formato per lo più da nobili o borghesi, che aveva dato alla Chiesa un Cardinale, Niccolò Sala, e quattro Vescovi, Paolino Pace, Pietro Fedele Grisolia, Giuseppe Rossi e Vincenzo Maria Armentano, era col tempo confluita una presenza più popolare che, in un contesto povero, vi cercò rifugio pur consapevole di avviarsi ad una vita fatta di sacrifici e di stenti. A tanti numerosi preti restavano come uniche occasioni per racimolare scarse e povere elemosine, la benedizione pasquale delle case, i funerali e le messe, comprese quelle in suffragio dei defunti. Si spostavano anche fuori paese per celebrare novene in santuari campestri, come quello della Madonna della Catena, o presso famiglie di contadini.
Tra tanti bisognosi vi erano anche, frati cercatori, picòzzi e custodi delle varie chiese e cappelle,’nfèrti, cioè offerti ai vari servizi, quasi a titolo gratuito o godendo delle poche elemosine elargite in occasione delle feste del Santo cui s’erano dedicati.
Sopravvissuti fino agli anni ’60, ricordo ancora alcuni custodi. A S. Anna, Zà Brìcita, Brigida Rotondaro; alla Madonna della Catena, prima Zzù Pippìnu, Giuseppe Rotondaro, e poi Gennarino D’Alessandro. Oggi è custode della Cappella dell’Addolorata Franco Fasanella. Giravano per il paese a giorni diversi, questuando. Alcuni portavano in una mano una scatoletta di legno, un elemosiniere dentro cui si infilava dall’alto una moneta mentre sul davanti era incollato un santino che ti veniva mostrato per baciarlo e pregarlo. Avevano pure un’oliera in rame. L’olio raccolto serviva per la lampada votiva che doveva restare sempre accesa in onore del Santo o della Madonna. Nelle campagne il giro era stagionale e coincideva con i vari raccolti soprattutto quello del grano, delle patate, del vino.
Solo l’Arciprete aveva un appannaggio più consistente che difficilmente divideva con i confratelli.
La Parrocchia riscuoteva, anche se man mano sempre più ridotti, censi, interessi per lasciti o per enfiteusi.
Il popolo, non limitato nella sua prolificità dall’ignoranza, dal bisogno (più ci sono braccia più è assicurato il pane per la vecchiaia), dagli obblighi imposti dall’etica religiosa (crescete e moltiplicate), costretto a vivere in un posto isolato e avaro di risorse naturali, indifeso, non alfabetizzato, pativa i disagi più impensati derivanti dall’ ineguaglianza delle condizioni di vita, dalle carestie, dalle guerre, dalle epidemie, dagli obblighi pendenti.
A lungo andare le frustrazioni avevano prodotto una rassegnazione quasi fatalistica ad un destino fatto di soprusi ed angherie.
Non si ha notizie di sollevazioni popolari. La miseria soffocava anche gli ardori. Il portarsi la mano alla bocca significava comprimere la rabbia ed evitare così azioni incontrollabili.
Il 6 maggio del 1866 vi fu un accenno di rivolta popolare.
Vedi: La rivolta del 6 maggio in Mormanno d’una volta di V. Minervini.
Continuo e asfissiante fu il vassallaggio .
Nessuno aveva visto i Ferdinando, i Carlo o le Caroline.
Se ne avvertiva però la presenza attraverso tutta una serie di obblighi e di carichi. Sempre presenti erano i Signùri Patrùni, i Signùri Cumpàri, i rappresentanti del Re e del governo che con astuzie e cavilli sfruttavano i poveri.
Ferdinando II, re di Napoli dal 1839 al 1859, disse un giorno al suo primo ministro Cassano che avrebbe piuttosto lasciato la corona e abbandonata Napoli, prima di sottoscrivere una Costituzione.
Nonostante tutto, questo era stato il popolo che aveva costruito, per ben tre volte, la sua chiesa, che era diventato esperto ed industrioso pastore (produttore di lane, pelli e formaggi), creatore di piccole industrie come le gualchiere, capace ed esperto nell’arte di trattare il legno.
Rinomati erano i segantini di Mormanno che si recavano nella Sila e nel Cilento. I mestieri più comuni tramandati da padre in figlio, erano quelli del calzolaio, del maniscalco, del lattoniere, del falegname, del segantino, del sarto e del barbiere del contadino generico e di quello specializzato ad innestare la vigna, solforarla e irrorarla.
Tra il 1860 ed il 1900 il passaggio al Regno d’Italia non risolse alcun problema, fu poco desiderato.
Affiorò tutta la questione meridionale, irrisolta ancora ai nostri giorni.
Prima Firenze e poi Roma furono troppo distanti dalla realtà locale.
In questo periodo, alla lenta e progressiva scomparsa della residua nobiltà e del suo peso politico non seguì una pensosa proposta del clero che avrebbe potuto rivolgersi con più attenzione ai problemi della povera gente, abbandonata e vessata dai vari governi
La Chiesa cattolica guidata da papa Leone XIII, umiliata dalla presa di Roma, impoverita con la spoliazione dei beni, dopo il Non expedit giunse faticosamente con la Rerum Novarum ad impostare una politica sociale cercando di riguadagnare la simpatia dei popoli e quella sua funzione di guida morale civile e religiosa. Questo travaglio ebbe poca eco a Mormanno. Gli arcipreti e i preti furono più attaccati alle tradizioni, più preoccupati per aver perduto privilegi che ricercatori di un compromesso moderno e in linea con i tempi che si andavano profilando. Bisognò aspettare fino agli inizi del 1900 per trovare qualche sacerdote nuovo e vocato. Ricordo Don Francesco Leone e Don Francesco Maria Sarubbi che condussero battaglie politiche a favore dei poveri abbandonando l’intransigenza leonina e abbozzando timidi tentativi di riconciliazione con il potere politico.
Il popolo vide così nell’emigrazione la sola speranza di salvezza.
La prima, temporanea e stagionale, fu rivolta, come da consuetudine secolare, a paesi compresi per lo più nell’area meridionale. La seconda, quasi sempre definitiva, avveniva tra nazione e nazione con riguardo soprattutto all’America del sud ove l’accesso era libero.
Difficile era recarsi negli Stati Uniti occorrendo o un visto speciale o una richiesta di lavoro o la chiamata di un parente mallevadore. Pochissimi ebbero i requisiti per tale espatrio.
Tali gite furono una vera delusione perché l’insicurezza politica di quelle terre e l’aumentato afflusso migratorio europeo, non assicurarono lavoro e dignità.
Vedi le mie Le rondini di Mormanno.
Moltissimi dovettero adattarsi a svolgere attività precarie, umilissime, generiche e saltuarie.
Altri, scoraggiati per il fallimento, ritornarono più poveri di quando erano partiti.
Alcuni, più orgogliosi, fecero perdere le loro tracce, e morirono in estrema miseria.
Nonostante la mancanza di infrastrutture e di incentivi a Mormanno non vi fu una renitenza delle iniziative locali. Laboriosi e solerti concittadini di estrazione medio borghese in alternativa agli esodi e a quella economia agricola che non aveva prodotto ricchezza, crearono una Mormanno industriosa.
Vedi in Uomini illustri di Mormanno il capitolo Avvenimenti che hanno determinato il progresso di Mormanno.
Alle vecchie imprese di sapore medievale quali le concerie, i caseifici, le fabbriche della cera, le tessiture al telaio si affiancò la produzione dell’energia idroelettrica, 1895.
Vedi: D. Crea Società, economia, imprenditoria a Mormanno tra l’800 e il ’900, Ed. Il Coscile 1995.
Sorsero nuovi mulini che presero il posto di quelli ad acqua, lanifici, segherie. Alcune di tali attività proseguirono fino agli anni cinquanta del secolo scorso.
Un altro fattore di sviluppo culturale fu la presenza, a partire dalla seconda metà dell’800, della scuola elementare divenuta obbligatoria, limitata al sono centro abitato, condizionata dalla mancanza di risorse statali e gestita da una comunità impoverita. Solo dopo la riforma Gentile si parlò di scuole rurali. Se ne istituì una: a Procitta.
Piccoli apporti diedero al paese i rappresentanti politici locali della fine dell’800 e della prima metà del 1900. Ricordo i deputati Fazio F. Maria, il barone Fazio Luigi, il signor Antonio La Terza.
Al deputato Francesco Morelli, invece (n. 1837 m. Castrovillari 23.08.1890) si deve, 1887 (?), la deviazione per Mormanno della Strada Statale 19 delle Calabrie nel tratto Castelluccio-Campotenese. La vìa nòva, come allora venne chiamata, consentì al paese, per secoli isolato, più rapidi collegamenti con Napoli e Cosenza, poli ove era rivolta tutta l’attività commerciale.
Alcuni commercianti mi raccontavano dei lunghi ed avventurosi viaggi che dovevano affrontare per recarsi a Napoli e come altri, nel lungo periodo del brigantaggio, vi si recavano non senza aver prima fatto testamento perché alle rapine seguiva a volte anche la morte.
In pieno regime fascista Mormanno ebbe come deputato l’on. prof. Amedeo Perna. Poco o del nulla significanti furono i suoi apporti. Per la cronaca dirò, riportando da R. Zangrandi Il lungo viaggio attraverso il fascismo, pag. 362, 363 Ed. Feltrinelli,427-9/UE, 1963, che il Nostro:
“si prosternava davanti al regime per rendere gli onori alla Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale a Roma, partecipando, 17 ottobre 1934, con la prima muta esterna guidata dalla medaglia d’oro Oddone Fantini, a montarvi la guardia”
L’Avv. Vincenzo Minervini ebbe più a cuore il paese ed i compaesani. Vedi altri miei scritti.
La guerra italo-turca (1911-1012), la prima guerra mondiale (1915-1918) che causò la morte di ben 68 concittadini tra cui il tenente Gaetano Alberti insignito di medaglia d’oro, l’epidemia della spagnola diffusasi tra il 1918 e il 1920, produssero un ulteriore scoramento.
Dopo il grande sacrificio imposto dal Re Soldato il successivo momento che doveva sfociare in un clima di rinnovamento e di pace, vide invece affermarsi gli ismi ove erano pervenute le filosofie, creando un fossato che seppellì libertà e democrazia.
A Mormanno il fascismo fu essenzialmente di parata. Dopo Giuseppe Cornacchia, colonnello in congedo, podestà (nomina governativa) dal 1926 al 1928, ricoprì tale carica, l’avvocato Francesco Rossi, dal 1929 al 1937. In questo stesso anno muore a Burca Hobu Lencia (26-28 agosto) Silvio Paternostro che verrà poi insignito di medaglia d’oro. Tra il 1938 e parte del 1939, è capo dell’amministrazione comunale l’avvocato Gustavo La Greca cui segue, restante 1939, l’insegnante Angiolo Armentano. Dal 1940 fino a giugno del 1942, ricopre la carica l’avvocato Armando De Callis, cui segue un commissario prefettizio, ed infine, 1943, il dottor Benedetto Longo. Dal 1944 al 1945 fu sindaco (mandato popolare) Giuseppe Uguzzoni, emiliano, ex confinato politico.
La fine della guerra coincise pure con la chiusura della miniera di manganese pètri firrìgni, un lavoro ben organizzato che aveva occupato tanti paesani, e con quella del ginestrificio che aveva sostenuto molte fabbriche del nord fornendo la materia prima in tutto il periodo dell’autarchia.
Lo stivale non si era allungato in Africa né il mare era divenuto nostrum. Tutto era finito in lacrime e lutti.
Pochi tornarono dopo essersi bruciati sotto il sole africano o gelati nei freddi deserti spazzati dall’impetuoso burano.
Il primo dopoguerra fu difficile. Le campagne non si ripopolarono: la mancanza di lavoro generò insicurezza e scoramento. Difficile era anche il clima nazionale.
Il 2 giugno del 1946 fu quella svolta che segnò definitivamente il fallimento delle albagie.
Ancora troppo lenta era la rinascita. Tra il 1947 e il 1950 si ritornò all’antica vecchia speranza dell’emigrazione. Molti commisero l’errore di rivolgersi all’America del Sud. Fu un vero e proprio fallimento.
In quegli stessi anni intanto nel resto del Paese la politica liberista tracciata da Einaudi permise la ricostruzione, e, soprattutto in virtù degli ingenti aiuti americani, riuscì a far raggiungere all’industria i livelli dell’anteguerra. Più tardi il boom economico portò benessere e il lavoro, più disponibile, diventò una vera conquista sociale.
A Mormanno, tra la fine del 1950 e il 1970, il Pastificio D’Alessandro, primo esempio di industria moderna, allontanò fame e miseria. Quanto è accaduto, a partire dagli anni ‘60 ad oggi, non è trattato nel presente schema storico perché merita una disamina attenta che sarà oggetto di un apposito lavoro. Solo per fare qualche cenno voglio sottolineare che un’accesa politicizzazione ha caratterizzato gli anni 1970-1980 durante i quali pur se si sono costituite alcune realtà come il Consorzio di Bonifica e l’Ospedale, non si sono create tuttavia quelle condizioni atte ad offrire lavoro a tutti i giovani che hanno continuato a cercarlo altrove impoverendo sempre più il paese di opere e di idee.
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giovedì 22 febbraio 2018
mercoledì 21 febbraio 2018
All’Italia Firenze, 6 maggio 2007 Ancora attuale dopo 11 anni!
Leggendo Dante,
parafrasando Leopardi e ricordando altri poeti e letterati.
Illusioni
e sforzi
dei
nostri avi.
Ma
ancor altro io vedo.
Vedo
ladri, imbroglioni, arruffatori,
troie
e puttane
da
siliconati petti
che
ti rendono inerme,
denudata,
irrisa, svergognata.
Qual
porcheria, quale schifezza io veggio.
Sento
suonare solo bunga bunga.
Chiedo
al cielo
e
al mondo: dite, dite,
chi
la ridusse a tale?
C’è
ancor di peggio?
Si!
Ancora
braccia di catene carche.
I
giovani?
non
considerati,
a
lor stessi lasciati,
sconsolati,
rifiutati
dalle istituzioni
che
dovrebbero nascondere la faccia
e
pianger di vergogna
per
tutto il male che compiendo vanno.
L’itala
speme or corre destinata
ad
altra sorte
da
feticci allettata e da illusioni,
da
rombi di motori,
da
falsi promotori,
da
isole famose,
da
sballi quotidiani,
da
pederasti insani.
Tutti
i nostri signori governanti
con
il culo attaccato alle poltrone,
massa
indistinta di poveri ignoranti,
messi
qui nella vigna a far da pali,
continuano
nel danno e nello scorno
servi
ed ancelle del beffante Creso
che
se ne fotte di chi parla e scrive
e
del potere avuto si fa vanto
dimenticando
e questo e quello
ed
il valore della stirpe antica.
Il
grande capo ha una sola idea
perseguita
con fervida costanza:
disunire
il popolo italiano
che
cercò sempre con sangue e con fatica
di
svincolarsi dalla mal baldanza
di
cesari ammantati d’auree bende
e
d’arroganti e ameni presidenti.
Dopo
gli anni cinquanta
si
sperarono orizzonti senz’ armi.
Ma
fu vano desio!
Dopo
l’atomica
tanti
altri fochi
e
tanto sangue ancora
inondò
la Terra.
Africa,
Cina,
Vietnam,
Palestina,
suonaron
d’armi e di voci di guerra
e
carri e grida e suono di timballi
in
estranee contrade
ucciser
tanta inerme umanità.
Da
tutto il contesto ch’hai tu visto,
nulla
hai imparato, amata Italia mia.
E
c’eran fumi, polveri e spade,
tra
nebbia, lampi,
atomi
vaganti,
di
madri pianti,
tremebondi
figli,
campi
sparsi di corpi moribondi.
Hai
fabbricato invece nuovi acciari
fornendoli
a tanta gente oppressa
che
moriva
per
la famiglia, la libertà,
il
pane,
beffeggiata
da infami dittatori
incuranti
di chi tanto languìa
per
la loro ricchezza ed albagia.
Tu
fabbricasti armi, Italia mia.
Per
portar poi soccorso
sei
andata a guerreggiar
su
altre sponde.
Avresti
con diversi altri sostegni
onorato
più impegni
pacificando
animi e tensioni.
Ἐ
una strada che non hai percorso.
Poi,
a chi lotta
per
sottrarsi a morte in patrio suol,
di
lacrime sparse ambo le guance,
e
con le mani giunte viene
implorando
aiuto,
sai
fare viso muto.
Ormai
più non governi neppure
i
figli tuoi.
Il
siculo, il calabro, il campano,
il
pugliese, il lucano, il molisano,
che
han fatto la ricchezza del Paese
stiano
nel sud.
Siete
i terùn, non pagate i tass,
non
vi piace il laùr, statevi là.
Roma
ladrona non sarà padrona.
Fora dai ball come i maroc.
Povera
Italia!
A
chi fuggìa cancelli e focolari
hai
dato in faccia,
tanti
pesci amari.
Povera
Italia,
come
sei in basso.
Che
risate fai fare al mondo intero
che
non segue oramai nessun tuo passo.
Eppure
un dì gli fosti sentiero!
Povera Italia, di dolore ostello
nave senza nocchiero in gran tempesta,
non donna di provincia ma bordello.
Ἐ
tempo ormai di una gran burrasca,
d’uno
tsunami, una provvida scopa,
quella
di don Lisandro,
per
ripulire ogni meandro,
per
spazzar via i ladri,
gli
imbroglioni,
i
subdoli lenoni,
gli
arrivisti,
chi
vende religioni,
i
mistificatori,
le
legioni
di
sfaccendati,
le
solite facce,
i
soliti inamovibili soloni,
la
mandria
dei
pecoroni,
i
novelli proci
e
i taffianti orchi,
cui
darei una pesante zappa
da
far curvar la schiena,
da
far venir le piaghe
anche
alla nappa
che
paluda lor groppe.
Vadano
a casa
i
tanti girella e insieme a loro
i
re travicello.
La
festa è finita, i guasti
son
tanti
siamo
rimasti
davvero
in mutande.
Or
basta, si, basta!
Nuovi
destrieri,
altri
pensieri
vuole
l’Italia.
Questo
si spera.
Col
petto ansante
e
vacillante
il
piede
non
potrò più pugnar.
Dammi
o ciel che sia foco agli italici petti
il
fuoco mio
e
che nell’alma terra
finisca
questa guerra.
Scherzare
ormai non vale.
S’accenda
nuova face
di
pace
sociale.
*****************************
domenica 3 settembre 2017
venerdì 30 giugno 2017
RICORDI DI VITA. Pittori di Mormanno.
L’arte pittorica mormannese dopo i compaesani Angelo e Genesio Galtieri e Francesco Oliva, le cui opere sono ancora oggi godibili, tacque per tutto il 1800.
Bisogna arrivare quasi alla fine del 1900 per vedere sulla scena altri concittadini che si cimentano con colori e pennelli. Il 17 agosto 1993 incontro Luigi Fortunato
che non pubblica o allestisce mostre. Si sente concittadino per la sua discendenza paterna ma vive a Napoli ove esercita con valore ed impegno il ruolo di insegnante di arte e storia dell’arte. Da ospite estivo trascorre nella sua ereditata casetta di via Faro tutto il mese di agosto ammirando da un terrazzino a livello del tetto lo spettacolo che la valle dell’Eden, come da tempo vado chiamando quella di Donnabianca, offre quotidianamente al suo sguardo attento e penetrante. Fortunato è un pittore che conosce alla perfezione il disegno e l’uso del colore che prepara personalmente con materiali in commercio che rivitalizza, e personalizza, per una loro precisa e significativa collocazione nei dipinti. Questi, più che da una osservazione diretta e riprodotta della natura, hanno origine da una rielaborazione che nasce dal profondo, non solo del cuore, cioè dei sentimenti, quanto dalla mente, cioè dalla ragione che dà un senso concreto al pensiero per un’esternazione capace di riprodurre sensazioni e sostrato filosofico che sono, in definitiva, l’essenza del suo dipingere e rappresentare. Luigi Fortunato, pur attingendo, molto sporadicamente, alle correnti del momento, le supera con un’interpretazione così personale che senza dubbio alcuno mi fa collocare il pittore in un mondo unico ed irripetibile nel suo tempo e nella sua storia. Mi diceva che avrebbe voluto meglio esaltare Mormanno di cui si sentiva figlio, eseguendo uno studio sui tre monumenti significativi della cittadina: il Faro, la chiesa madre, e la chiesa di S. Rocco che, secondo lui, erano i simboli viventi della storia e della cultura del Paese.
Il 20 agosto del 1994 Luigi Grisolia esordisce con una mostra allestita in via De Callis.
I suoi lavori, per la maggior parte oli su tela, pur privi di una tecnica di sottofondo e senza un’ individuabile scuola o corrente pittorica, con ingenua e sincera umiltà rappresentano fatti, azioni e sentimenti tutti personali, osservati e pure a volte idealizzati. Il Grisolia ha un retroterra difficile come uomo. E’, come ben pochi, scampato ai pericoli della guerra d’Africa e s’è ritrovato, con tutte le difficoltà dei reduci, ad affrontare una vita interrotta, diversa, inaspettata per impegni isempre crescenti ed imprevisti. Quando può dipinge per rilassarsi e soddisfare le sue idee che sono gradite anche a chi osserva i suoi lavori con occhio benevolo. Dopo Grisolia incontriamo, dal 2000 ad oggi, Rocco Regina, Giuseppe De Franco e Fedele Barletta.

Tutti e tre, ancor oggi in piena attività e impegnati anche oltre i confini da cui ricevono significativi riconoscimenti, producono opere in cui si avverte, pur mancando una sicura collocazione in una o più che in un’altra corrente pittorica, una sincerità di espressione che colpisce per la capacità di comunicare i sentimenti e le emozioni.
Tutti e tre, attesi e preoccupati di dare ai lavori una sequenza storica, intingono il pennello nei colori degli orizzonti, negli azzurri del cielo, nei prati fioriti, nelle linee armoniose delle creste montane che svettano e proteggono, dando il senso dell’abbraccio di un’amante gelosa qual è la stessa natura dell’isola ecologica in cui è immersa Mormanno.
E sono tutti e tre, a parer mio, estremamente sinceri, attenti e pensierosi, umili, preoccupati e a volte tentati di smettere, ma impossibilitati a farlo non solo per non creare delusioni quanto perché non possono far tacere quel che ditta dentro che si avvale delle forme e dei colori per notificare, prima a se stessi, i vari momenti di vita, che in loro trova quel modo di esplodere e manifestarsi con desiderio e gioia fanciulla.
Vedi sul web i miei seguenti filmati:
Per Luigi Fortunato
1° https://youtu.be/dcuuA853gq8
2° https://youtu.be/v3W3pb6vOUM
3° https://youtu.be/WLR7YetAhbw
4° https://youtu.be/QzFbrxD-tns
5° https://youtu.be/knJxM967Bu0
Per Luigi Grisolia
https://youtu.be/3EvTFHc_kVY
Per Rocco Regina
1° https://youtu.be/rMWn4YWn1bo
2° https://youtu.be/bZdxWXbeJ2s
3° https://youtu.be/CkKZXiix668
4° https://youtu.be/8WZyaFYq-wc
Per Giuseppe De Franco
Per Fedele Barletta
https://youtu.be/pFVO2s2or2Y
Bisogna arrivare quasi alla fine del 1900 per vedere sulla scena altri concittadini che si cimentano con colori e pennelli. Il 17 agosto 1993 incontro Luigi Fortunato
che non pubblica o allestisce mostre. Si sente concittadino per la sua discendenza paterna ma vive a Napoli ove esercita con valore ed impegno il ruolo di insegnante di arte e storia dell’arte. Da ospite estivo trascorre nella sua ereditata casetta di via Faro tutto il mese di agosto ammirando da un terrazzino a livello del tetto lo spettacolo che la valle dell’Eden, come da tempo vado chiamando quella di Donnabianca, offre quotidianamente al suo sguardo attento e penetrante. Fortunato è un pittore che conosce alla perfezione il disegno e l’uso del colore che prepara personalmente con materiali in commercio che rivitalizza, e personalizza, per una loro precisa e significativa collocazione nei dipinti. Questi, più che da una osservazione diretta e riprodotta della natura, hanno origine da una rielaborazione che nasce dal profondo, non solo del cuore, cioè dei sentimenti, quanto dalla mente, cioè dalla ragione che dà un senso concreto al pensiero per un’esternazione capace di riprodurre sensazioni e sostrato filosofico che sono, in definitiva, l’essenza del suo dipingere e rappresentare. Luigi Fortunato, pur attingendo, molto sporadicamente, alle correnti del momento, le supera con un’interpretazione così personale che senza dubbio alcuno mi fa collocare il pittore in un mondo unico ed irripetibile nel suo tempo e nella sua storia. Mi diceva che avrebbe voluto meglio esaltare Mormanno di cui si sentiva figlio, eseguendo uno studio sui tre monumenti significativi della cittadina: il Faro, la chiesa madre, e la chiesa di S. Rocco che, secondo lui, erano i simboli viventi della storia e della cultura del Paese.
Il 20 agosto del 1994 Luigi Grisolia esordisce con una mostra allestita in via De Callis.
I suoi lavori, per la maggior parte oli su tela, pur privi di una tecnica di sottofondo e senza un’ individuabile scuola o corrente pittorica, con ingenua e sincera umiltà rappresentano fatti, azioni e sentimenti tutti personali, osservati e pure a volte idealizzati. Il Grisolia ha un retroterra difficile come uomo. E’, come ben pochi, scampato ai pericoli della guerra d’Africa e s’è ritrovato, con tutte le difficoltà dei reduci, ad affrontare una vita interrotta, diversa, inaspettata per impegni isempre crescenti ed imprevisti. Quando può dipinge per rilassarsi e soddisfare le sue idee che sono gradite anche a chi osserva i suoi lavori con occhio benevolo. Dopo Grisolia incontriamo, dal 2000 ad oggi, Rocco Regina, Giuseppe De Franco e Fedele Barletta.


Tutti e tre, attesi e preoccupati di dare ai lavori una sequenza storica, intingono il pennello nei colori degli orizzonti, negli azzurri del cielo, nei prati fioriti, nelle linee armoniose delle creste montane che svettano e proteggono, dando il senso dell’abbraccio di un’amante gelosa qual è la stessa natura dell’isola ecologica in cui è immersa Mormanno.
E sono tutti e tre, a parer mio, estremamente sinceri, attenti e pensierosi, umili, preoccupati e a volte tentati di smettere, ma impossibilitati a farlo non solo per non creare delusioni quanto perché non possono far tacere quel che ditta dentro che si avvale delle forme e dei colori per notificare, prima a se stessi, i vari momenti di vita, che in loro trova quel modo di esplodere e manifestarsi con desiderio e gioia fanciulla.
Vedi sul web i miei seguenti filmati:
Per Luigi Fortunato
1° https://youtu.be/dcuuA853gq8
2° https://youtu.be/v3W3pb6vOUM
3° https://youtu.be/WLR7YetAhbw
4° https://youtu.be/QzFbrxD-tns
5° https://youtu.be/knJxM967Bu0
Per Luigi Grisolia
https://youtu.be/3EvTFHc_kVY
Per Rocco Regina
1° https://youtu.be/rMWn4YWn1bo
2° https://youtu.be/bZdxWXbeJ2s
3° https://youtu.be/CkKZXiix668
4° https://youtu.be/8WZyaFYq-wc
Per Giuseppe De Franco
Per Fedele Barletta
https://youtu.be/pFVO2s2or2Y
giovedì 25 maggio 2017
Passeggiando per il Pollino. Morano Calabro.
Luigi Paternostro
PASSEGGIANDO
PER IL POLLINO
Storia e arte
di alcuni dei suoi centri abitati
PARTE III
Arte sacra a Morano Calabro
Tra i paesi limitrofi a Mormanno facenti parte del Parco Nazionale del Pollino, Morano Calabro ha un’importanza tale da meritare un’attenzione viva e pensosa.
Per questo motivo sono nate le presenti brevi note sorrette dalla gioia della scoperta e dalla fatica della ricerca per immagini che da più anni gratifica la mia modesta attività di cultore di storie patrie.
In una iscrizione databile al 130 a.C. si ricorda un Muranum come punto di riferimento posto sulla via Appia.
Solo nel 1863 con proprio decreto Vittorio Emanuele I di Savoia lo chiamò “calabro” per distinguerlo da Morano sul Po.
Il paese ha una posizione strategica non irrilevante.
Fu dominio degli Aragonesi e poi degli Spinelli.
Ha una struttura urbana ed una architettura particolare sulla quale non ci soffermiamo in questo contesto mirato a ricordare prevalentemente opere di arte sacra.
Anche di sfuggita non possiamo comunque non menzionare una rocca di stile normanno risalente al XII secolo, probabilmente eretta su fortificazioni più antiche o quantomeno su torri di vedetta.
Tra il 1514 e il 1545 sorse il Castello vero e proprio a spese di Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano e signore di Morano.
Parliamo ora delle chiese che custodiscono opere di notevole valore.
Tra esse la più antica è quella di San Pietro e Paolo proprio ai piedi del Castello. Ha tre navate. Recentemente restaurata è stata ridipinta in un accentuato rosso che deturpa e altera, secondo me l’armonia dell’insieme che sarebbe stato meglio decorato con colori più tenui.
Conserva due statue di Pietro Bernini provenienti da Colloreto.
Pregevole il coro ligneo opera di intagliatori locali, Mario e Agostino Fusco. Sulle sue cimasette sono stati dipinti, ad olio, tra il 1806 e il 1807, dal mormannese Genesio Galtieri, le figure dei dodici apostoli così come idealizzate dalla iconografia tradizionale.
Tra le tele più importanti ricordo: una Madonna col Bambino e Santi, forse S. Francesco di Paola e S. Antonio da Padova.
Interessante un affresco di stile quattrocentesco posto sulla parte di sinistra, primo altare della navata, proveniente da una chiesetta extra moenia già dedicata a Santa Maria delle Grazie andata completamente in rovina.
Solo per pura curiosità qui voglio notare che nella medesima posizione, anche a Mormanno trovasi, in S. Maria del Colle, un affresco simile, anch’esso databile allo stesso periodo o al più al cinquecento, pure dedicato alla Madonna delle Grazie. E’ una coincidenza o la loro collocazione è parte di un progetto di fede derivante dall’evidenziare ad esempio il ruolo di una Confraternita come accade per Mormanno?
In alto sulla volta, un tempo pregevolmente decorata, in corrispondenza dell’ingresso centrale, fa mostra di sé un affresco dello stesso G. Galtieri, 1805, che raffigura la Vocazione di Pietro o Pesca miracolosa. Il dipinto è in discreto stato di conservazione.
Abbelliscono inoltre il tempio altre due sculture una raffigurante S. Carlo Borromeo ed una detta La Candelora, proveniente da Colloreto.
Nel bel mezzo del paese si erge la collegiata della Maddalena a tre navate, Ha una struttura massiccia. Interessanti sono l’organo a canne del 700, il pulpito, il fonte battesimale, tele del tardo seicento e soprattutto due statue del ‘500 di cui una opera del Gagini poste su un imponente marmoreo altare maggiore.
Per ragioni di sicurezza, nella sacrestia è custodito un polittico di Bartolomeo Vivarini, datato 1477 e firmato, eseguito per San Bernardino, chiesa di tarda architettura monastica archiacuta del XV secolo. Su tale polittico sono raffigurati: sul pilastrino di sinistra (cm.50 per 24), San Giovanni Battista, San Nicola di Bari, Santa Caterina D’Alessandria; su quello di destra, che ha le stesse dimensioni, San Gerolamo, S, Ambrogio e Santa Chiara d’Assisi.
Al centro è collocata, in piedi, in uno spazio di cm. 54 per 147, la Madonna con Bambino tra San Francesco d’Assisi e Bernardino da Siena. In alto, in un riquadro di cm. 69 per 55, è raffigurato Cristo. S. Antonio di Padova e Ludovico da Tolosa sono posti poi in uno spazio che misura cm.135 per 40. Sulla predella, cm. 20 per 260 v’è Gesù benedicente tra gli Apostoli.
S. Bernardino, di cui stiamo parlando, è una fabbrica ad unica navata. Essa conserva ritoccati affreschi e alle pareti del portico e a quelle interne. Una nicchia, posta sulla parete di sinistra, definita da un arco a tutto sesto con intradossi dipinti e poggianti su colonne, contiene, di ignoto pittore calabrese, un affresco, restaurato, raffigurante la Madonna con il Bambino tra San Francesco e San Bernardo. Nella stessa, oltre ad un pulpito ligneo di intagliatori meridionali risalente al 1611, si può ammirare, posto sulla navata centrale, un soffitto di tipo veneziano.
All’esterno, significativo è un campanile sicuramente di scuola medievale.
L’annesso convento in cui si ammira anche un chiostro ben restaurato, fu costruito nel 1452 a devozione di Antonio Sanseverino conte di Tricarico e signore di Morano. Il complesso fu consacrato nel 1485.
Ritornando nel paese, quasi alla fine della degradante serie delle case, troviamo la chiesa di San Nicola, costruita su due livelli.
In quella sottostante troviamo, firmata da Angelo Galtieri da Mormanno, ultima sua opera, e datata 1739, un Giudizio Universale, che è la più grande e significativa pala d’altare dell’intera Calabria. Il dipinto è stato recentemente restaurato.
Altra chiesa significativa è quella annessa al Convento dei Cappuccini, che, maestri dell’intaglio e del decoro, l’hanno abbellita di armoniose opere lignee. Tra esse ammiriamo il pulpito, l’altare maggiore e numerose statue.
Spostiamoci ora alle falde del Pollino per visitare i ruderi del monastero di Colloreto. Biagio Cappelli in Morano e la sua odonomastica, edizione Pro Loco Morano Calabro, 1989, ricorda che il posto fu fondato da Fra Bernardo da Rogliano. Nel bios del frate, un tale Giovanni Leonardo Tufarello così scrive: “ch’egli è un picciol colle irrigato da bei ruscelli e inargentati rivoli di freschissime acque i quali del continuo lo rendono colorito”
Il posto nel 1546 nella Platea et sentencia Morani, foglio 22, viene ricordato come “valle di Collorido”. Si potrebbe supporre, data la similitudine tra la Madonna raffigurata negli Statuti della Congregazione con quella di Loreto, che lo stesso fra Bernardo abbia nominato il posto come “Colle di Loreto”.
Leonardo Milizia, questo il vero nome di Fra Bernardo, era nato a Rogliano il 1519 e morì nel 1602 in Colloreto, ove fu sepolto.
La Congregazione che fondò, ratificata da Papa Paolo V, ebbe il titolo di Santa Maria di Colloreto di Morano di Calabria Citra dell’ordine eremitico di Sant’Agostino dell’Osservanza.
La chiesa, ad una sola navata, orientata a ponente, era inglobata nel convento circondato da alte mura e da due torri campanarie coperte da ampie feritoie, vigili sentinelle agli assalti cui il luogo era esposto. Non è da escludere che terminassero con un tetto conico.
A tale ordine, possessore anche di tre case in Morano, appartennero una chiesa a Viggianello, 1598, una ad Orsomarso, 1601, e una cappella o chiesa a Mormanno, Santa Maria del Serrone, distrutta da un fulmine nel 1844 e da me ricordata anche in Mormanno un paese…nel mondo, e in un mio filmato.
Nel 1751, Papa Benedetto XV soppresse tale Congregazione trasferendo i suoi beni al Reale Albergo dei Poveri che doveva essere eretto in Napoli.
Il convento e le sue pertinenze fu acquistato nel 1752 dagli Agostiniani calabresi e rimase in attività fino al 7 agosto del 1809 quando Gioacchino Murat ordinando la soppressione di tutti monasteri posseduti dagli ordini religiosi ne decretò la definitiva scomparsa.
Alla sua chiusura seguirono saccheggi ed espoliazioni.
Troviamo molti suoi tesori sparsi qua e là.
Un crocifisso ligneo trovasi a S. Basile. Le statue di Santa Lucia e Santa Caterina, opere giovanili di Pietro Bernini, insieme ad un’altra pure marmorea della Vergine detta della Candelora furono portate, come già accennato, in S. Pietro.
Nella Maddalena trovarono posto i marmi di S. Agostino e Santa Monica, collocati sull’altare maggiore.
Dal Serrone sono pervenuti a Santa Maria del Colle di Mormanno, un calice d’argento, datato 1677, usato per le occasioni solenni, e il quadro raffigurante l’elemosina di S. Tommaso del 1719 firmato Aloisius Cac…G.J.
In margine a queste brevi note mi piace ricordare che a Morano Calabro esiste, voluto e curato dal Prof. Francesco Mainieri, un importante Museo dell’Agricoltura e della Pastorizia (tel. 0981 30372) di cui possiedo un filmato inedito, ed un Centro studi Naturalistici del Pollino, denominato il Nibbio (tel. 0981 30745). Entrambe le istituzioni sono visitabili.
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